venerdì 18 maggio 2012

Sole di mezzanotte

























Scoppietta come la plastica a bolle, ma non ti annoia mai. Ogni cosa che brucia ha un odore diverso. Per dire, i calzini di mio fratello puzzano anche quando sono in fiamme. All’inizio avevo paura, ma la verità è che non esiste fuoco che non possa essere domato, che non lasci a chi l'ha acceso il tempo di mettersi in sicurezza. Tu devi immaginarti la casa come un posacenere, e tutto quello che c’è dentro come il foglio di carta straccia che ci bruciavi qualche anno fa, quando tutto quello che facevi riscuoteva un applauso.

Dentro c’è l’inferno, ma intorno al posacenere non succede niente. Quindi si tratta solo di correre fuori. Hai nove anni, voglio dire: quando ti vedranno in giardino, col cuore a palla per l’eccitazione, come se bruciasse anche lui, penseranno che è la paura e ti stringeranno forte. Penseranno che sei terribilmente intelligente, che sei riuscita a salvarti da sola.

Ed è vero, sono molto intelligente. Vedo tutto, corro per tutta casa, non mi sfugge niente. Queste cose ce le ho in comune con la fiamma. L’acqua è tonta, lenta, è solo fango un po’ più puro. L’acqua sale e copre lentamente tutto, mica sceglie cosa colpire. La fiamma no: guizza, schiocca, slingua, svolta, improvvisa, inventa. L’acqua è Pippo a piedi, la fiamma è Macchia Nera sulla sua Bugatti. E’ un’appendice muscolare del mio sguardo. Ha una morsa leggera ed elegante; avvolge, perimetra, strozza, secca, sbriciola: come la spira di un pitone o la mano di un Gigante.

Tu devi pensare al domino. Finché una tessera cade dopo l’altra in realtà non è ancora successo niente d’importante. E’ quando una ne butta giù tre, in parallelo, e tre ne buttano giù cinque, che comincia lo spettacolo. E’ così che funziona una miccia. La miccia è l’innesco del domino. Devi farla più lunga della strada da percorrere per metterti al riparo, perché il fuoco è più veloce di te. Io l’ho fatta con l’alcol, per esempio. Ho portato il filo fino alla finestra di mio fratello. Ho ricaricato uno di quegli zippo di papà e ce l’ho buttato su. Poi sono saltata dalla finestra.

Davanti alle ceneri la mamma ripenserà alla settimana scorsa, quando l’ha visto che giocherellava con l’accendino e non gli ha detto niente. Io dico che penseranno che è stato lui. Così magari la prossima volta lo sgridano come hanno sgridato me per la storia di quel gatto noioso. E il bacio della buonanotte me lo prendo prima io: che sì, ho ancora paura del buio, ma sarei anche la maggiore.

La foto è stata originariamente postata su FB da Drzap.

martedì 27 marzo 2012

Bene, grazie.

Il termine Ipocondria viene dal greco ὑποχόνδρια, composto dal suffisso ὑπο, che significa “sotto”, e χόνδριος, che significa “Woody Allen”.
L’ipocondria viene psichiatricamente definita come un eccesso di preoccupazione per il proprio stato fisico. E il totale disinteresse verso quello mentale dei propri cari.
Secondo la terapia cognitivo-comportamentale, il ciclo dell’ipocondria si articola in quattro fasi proprie, che la distinguono dalle altre sindromi ossessivo-compulsive. Con le quali però condivide la quinta: il fallimento della terapia cognitivo-comportamentale.

Il ciclo dell’ipocondria 

Lieve raschio in gola. Accarezzamento della carotide. Cristo quant’è duro questo linfonodo. E’ duro che sembra quasi una carotide. 
Fase ossessiva. Organizzo i sintomi per cercare la diagnosi. Sono due giorni che mi prudono i piedi, parlo con voce strozzata e tratto gli estranei da mediocri rompicoglioni: è il linfoma di Nanni Moretti.
Google. Cazzo anche la sudorazione notturna.  Ho inzuppato la maglia di lana, la tuta ed entrambi i piumoni. E sarà passata almeno una settimana da ferragosto.
Per tirarmi su mi figuro il funerale. Le diapositive della  casa in Sardegna su “Dream a Little Dream of me”, le belle ragazze che piangono, il discorso di Cicchitto. Poi mi figuro anche il mio.
Fase compulsiva. Devo andare dal medico. Ne ho cambiati dieci negli ultimi sei mesi. La cosa era talmente stressante che ogni volta che li lasciavo avevo una allucinazione auditiva: il rumore di un tappo di champagne. L’otorino non mi ha trovato niente, nonostante abbia avuto la stessa allucinazione anche uscendo dal suo studio.
Comunque: nuovo medico. Sala d’attesa. Le sale d’attesa sono l’eldorado delle signore al di sotto di un certo tasso d’istruzione e al di sopra di un certo tasso di varici. Sono un mondo fatto per loro, a cominciare dalle riviste sul tavolo di tamburato. C’è “Padre Pio Weekly”, oggi con il punteruolo per bucarti le mani, “Peggiora il tuo Abruzzese”, con il CD di Maria Teresa Ruta che legge luoghi comuni sui Marchigiani, e “Coltiva i tuoi porri”, con l’esclusiva cavigliera-hula hoop firmata dalla Sora Lella.
Una signora accanto a me racconta che suo figlio è stato visitato in sogno da suo nonno morto, che gli ha detto di controllare un neo. Il dermatologo l’ha visto e gli ha salvato la vita, essendo quel neo un melanoma al tredicesimo stadio. “Quelli non li operi, ci fai una chiacchierata maschia e li convinci ad andarsene con le loro gambe”.
Comunque entro dal medico, mi tasta la gola, mi dice che quello che credevo fosse un linfoma in realtà è la mia carotide. Mi faccio guardare i nei con l’ultravioletto. I nei sono a posto, ma non riesce a flasharmi il codice a barre.
Stringo la mano al medico, che sorridendomi mi saluta: “E comunque veda che solo una piccola percentuale di melanomi si evidenzia da una mutazione del neo”. “Ah, gli altri da cosa si vedono?”. “Da niente, sono asintomatici”.

Il cancro asintomatico.

Il cancro asintomatico è il capo dei cattivi. Quello che quando entri nella stanza sta di spalle nella poltrona girevole. È Charlie cattivo, e questi sono i suoi tre demoni: Formicolio alle Mani, Fischio all’Orecchio e Trentasettemmezzo.
Nessuno li ha mai visti agire tutti insieme, ma nel giro degli ipocondriaci si narra di un certo Santuzzo che, colpito dalla combo maledetta, ha acceso il gas, messo la testa nel forno e si è sparato facendo saltare in aria la casa.
Il terrore del cancro asintomatico ti colpisce quando meno te l’aspetti, tipicamente davanti alla TV. Quello da melanoma quando non hai indovinato la Ghigliottina e ti concentri sull’incarnato di Carlo Conti. Quello da linfoma quando la Clerici alza l’ascella per votare il peperone verde.  Quello al cervello se ti svegli, accendi e c’è Gabriele La Porta che parla con un manichino della Standa chiamandolo “Socrate”.
Il terrore del cancro asintomatico passa solo appena ti viene un sintomo. Il sintomo preferito dall’ipocondriaco è il muco. Perché, in linea di massima - e il primo che si azzarda a confutarmela lo decapito e lo mando a Cleopatra - il muco vuol dire raffreddore, influenza o allergia: gli idoli erotici dell’ipocondriaco.
L’ipocondriaco non si libera mai del muco. Per lui è denaro. Una dose di muco è stimata intorno ai centocinquanta euro, perché appena te ne liberi e ti restano gli altri sintomi devi correre dallo specialista.
Così, durante l’inverno, le narici dell’ipocondriaco aumentano di volume fino a stuzzicare la fantasia di Lunardi. E la sua voce muta progressivamente nel sibilo di un’elettromola, sviluppando armonici che fanno confessare Il Prigioniero e accorrere i procioni. Per altro portatori di rabbia e leishmaniosi.
Finito l’inverno e superate le allergie primaverili, l’ipocondriaco viene liberato dall’estate, che lo trova magro, col pigiama a righe e un paio di pericolose opinioni sulla Palestina.
Qualche giorno dopo, al mare. Il corpo abbronzato e coperto di salsedine, la donna della sua vita accanto, la fresa con pomodoro rosa amalfitano, olio pugliese e origano fresco, l'ipocondriaco per la prima volta si sente felice, caldo e al sicuro. Ed è a quel punto che l'odore del pomodoro arriva al vespaio sull'ombrellone.